Zeugma n° 16
Ci sono fatti ed accadimenti nel mondo così orribili ed indicibili che per affrontarli, anche solo finzionalmente, ci vogliono uno stomaco d'acciaio e un'intenzione di ferro. D'altro canto, si sa, la realtà supera sempre ogni immaginazione eccetera eccetera. C'è però modo e modo per parlare di quello di cui non si riesce a parlare, di trattare l'Intrattabile. C'è stata una sera di dieci e passa anni fa in cui mi sono, forse per la prima volta, sinceramente incazzato con un'opera finzionale, e non per ciò che sosteneva o non sosteneva, mostrava o non mostrava, per gli assunti da cui era infornata e per le conclusioni che traeva o non traeva, ma per la profonda disonestà che permeava ogni fibra dell'approccio a un tema terribile e, purtroppo, misconosciuto, ancora oggi. Il fatto è questo: se gli unici riflettori che vengono accesi non servono ad illuminare funzionalmente l'oggetto ma, piuttosto, ad accecare inutilmente l'osservatore, che conclusione si potrà mai trarre, quale lo stimolo a rimanere sul pezzo, ad approfondire anzi la questione? La luce non assolve la funzione di una sberla: il troppo sole è abisso, ottenebra anziché risvegliare e rischiarare, respinge anziché attrarre, ma in un senso piuttosto metadiscorsivo, non tematicamente coerente. Così c'è la questione spinosa per eccellenza, il tabuizzato convitato di pietra della cronaca nera, che come la chiesa viene rimesso al centro del villaggio, ma ancora una volta in maniera grossolanamente volitiva: così che, dimenticato per un attimo l'oggetto del discutere, l'occhio che uccide viene catturato dai movimenti di camera, dagli stacchi di montaggio, dai grotteschi accostamenti onirici che, sempre ostinatamente uguali a loro stessi, suonano come un peana autocelebrativo alla tecnica che si erge a medium e declassa il messaggio. Sia chiaro, non che tutti debbano possedere il coriaceo grezzume del vecchio Citto Maselli: ma ci dev'essere pure una via capestra di mezzo che scarti la masturbazione a destra e il realismo socialista a sinistra. Infatti c'è un tetto sul quale, per un attimo almeno, il simbolismo viene tacitato, il fumo dell'allegoria dissipato, la Gorgone osservata dritta negli occhi, con coraggio. Dura appunto un attimo, ma è un attimo che picchia duro e rinfocola i rimpianti per aver visto non il film che non c'è e ci sarebbe dovuto essere, ma quello che, ahinoi, davvero c'è, dentro e fuori da un tagadà in movimento perpetuo.
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