Controfattuale (22 a-c)
Meno male che, al discorsetto di accettazione per l'Oscar alla carriera, a Paolo Sorrentino scappò una gigantesca scorreggia sul palco, che in nessun modo – questo va detto – provò a dissimulare, né tantomeno attribuire ad altri. La reazione del pubblico in sala fu polarizzante. L'ala sinistra, nella quale troneggiava lo splendido centoventicinquenne Morgan Freeman, rimase estasiata dalla plasticità performativa del gesto, arrivando a considerarlo il trait d'union più solido con la tradizione dell'onirismo folkloristico felliniano e apprezzando l'audacia di inserire in una cornice metadiscorsiva una semplice formalità di costume. L'ala destra, aizzata dal pimpante duecentosedicenne Steven Spielberg, gridò invece allo scandalo, interrogandosi sull'effettiva opportunità di conferire un premio ad un maledettissimo gaglioffo partenopeo incapace di esercitare il benché minimo controllo sui propri sfinteri. Le cronache tramandano che Sorrentino, la sera prima, si fosse abboffato di legumi e che la scorreggia, oltre ad essere particolarmente rumorosa, fosse assolutamente letale, mefitica. Tra i decessi ricollegabili all'esalazione involontaria di gas quello della madrina della serata, Mara Venier.
Meno male che, a corto di idee per il suo nuovo romanzo, Fabio Volo pensò bene di affidarsi alle magie di charGPT, facendo lavorare l'algoritmo sul trittico di parole chiave sogno-speranza-solidarietà. Ne saltò fuori il capolavoro letterario di Volo e la sua opera narrativa di gran lunga più ambiziosa, un romanzo familiare in quattro volumi ambientato nella Repubblica Democratica di Kampuchea che si conclude, icasticamente, come noto, con l'autodecapitazione del protagonista nel bel mezzo di una risaia improduttiva. Non stupisce oggi rileggere i peana celebrativi innalzati all'epoca all'indirizzo di Volo: Giorgio Agamben lo definì "il romanzo-non romanzo che cela l'Heautontimorumenos dell'homo sacer", mentre Federico Poggipollini se ne uscì con un genuino "soccia, sborada". Volo non ringraziò mai l'intelligenza artificiale per questo.
Meno male che, riascoltando Complicated di Avril Lavigne un pomeriggio d'inizio primavera per radio, ad un ascoltatore casuale non sfiorerebbe mai l'anticamera del cervello il pensiero che si tratta di un pezzo del 2002, dunque risalente a ventuno anni fa, in un momento storico in cui l'unica preoccupazione globale era data dal diffondersi inesorabile di Asereje, dai mondiali di Corea-Giappone e dalle conseguenze dell'invasione statunitense dell'Afghanistan. Le estati erano calde, ma soffiava una brezza gentile sui tuoi pensieri di bambino; tornavi sudato dalla partita di calcetto e ti mettevi a guardare i cartoni senza nemmeno lavarti il culo; i fratelli più grandi si aggiravano per casa con l'aria sconfitta, qualcuno era tornato da Genova con la testa rotta, altri avevano per sempre chiuso la loro chitarra sotto chiave, altri ancora si ripulivano (o si sarebbero ripuliti) per andare all'università. E poi lei, Avril Lavigne, folletto biondo canadese poco più che adolescente che scriveva canzoncine di merda che però, chissà perché, nessuno poteva fare a meno di cantare. Ve le ricordate ancora le parole, anche oggi che il pallone è diventato l'ufficio e i cartoni la deadline da non mancare assolutamente. Incredibile: il pop punk all'acqua di rose è l'unico specchio, l'unico pertugio rimasto che possa ancora farvi ricordare di com'eravate un tempo, prima di tutto il resto.
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