Ciò che non perturba non rinforza
Nelle lingue del mondo esiste questa trasversale anomalia, una smagliatura nella perfetta rete che si suppone costituisca il modulo della grammatica universale: la difficoltà di morfologizzazione di una forma tempo-aspettuale che corrisponda a quello che viene definito “presente perfettivo”. Detta in termini appena più potabili, sono poche le lingue del mondo che nel proprio inventario grammaticale possiedano una forma la cui semantica rimandi ad un evento che si svolga nel presente e al contempo sia puntiforme, che sia congruente con il momento dell’enunciazione ma si esaurisca nell’istante in cui venga evocato nell’enunciato. Le ragioni formali di quest’asimmetria sono piuttosto complesse da esporre e sintetizzare, ma la motivazione cognitiva ad esse sottesa è facilmente comprensibile: risulta difficile concettualizzare un evento i cui limiti siano tutti contenuti entro il lasso di tempo fisico che serve ad un parlante per riferirvisi. Forse, a dire il vero, nel mondo reale una tale eventualità non si pone nemmeno, il che spiegherebbe perché le lingue del mondo evitino l’imbarazzo del presente perfettivo (o, come viene spesso chiamato in letteratura, il suo “paradosso”) in almeno tre modi: 1) non grammaticalizzando affatto una tale forma, specialmente in quelle lingue, come il greco, dove l’espressione aspettuale è ben visibile a livello morfologico; 2) grammaticalizzandola, ma limitando sensibilmente la sua libera distribuzione sintattica, per esempio in contesti di subordinata o di irrealtà; 3) grammaticalizzandola, ma reinterpretandone il contenuto semantico, spesso come futuro aspettuale.
Se il presente perfettivo fosse un racconto breve di Henry James e io fossi Mark Fisher, a questo punto, dovrei dire che siamo in presenza dell’eerie per eccellenza: una categoria estetica che predica l’esistenza di qualcosa che non ci dovrebbe essere ma, di fatto, c’è – con questo implicando che la sua esistenza sia di per sé un fattore perturbante. Trovo che a questo mondo molte cose, non solo il presente perfettivo, siano eerie: tutto il mondo è, forse, eerie alla massima potenza. Sono eerie le dichiarazioni di Enrico Mentana, le manifestazioni dei redneck in difesa del secondo emendamento, le parate militari dell’8 maggio in Russia e del 2 giugno in Italia: sono eerie i liberal della Grande Mela, Cattive ragazze di Marina Ripa di Meana e le statue in onore di Indro Montanelli. A tal proposito, senza entrare nel merito di una presa di posizione che – aggredendo solo il simbolo ma non l’ideologia ad esso sottostante – non può trovarmi comunque granché d’accordo, mi sono sempre chiesto come sia giusto rapportarsi nei confronti dell’eerie, di ciò che disturba e perturba il proprio orizzonte di senso. Prendiamo, ad esempio, le opere d’arte eerie, specialmente quelle che difendono a spada tratta, se non addirittura promuovono, posizioni ideologiche ributtanti. Il mondo contemporaneo, che a dispetto del suo progressismo di bandiera sembra incapace di vedere l’infinità dei grigi tra il prototipicamente bianco e il prototipicamente nero, ne invocherebbe la censura a pieni polmoni, se non altro per togliersi di mezzo l’imbarazzo di dover prendere una vera decisione: via The Birth of a Nation di Griffith (e poco importa, forse, che appena qualche anno fa ne sia stata realizzata una slavata versione afrocentrica), via i film di Leni Riefenstahl, via i mondo movie di Prosperi e Jacopetti e i nazisploitation, no al cinema americano prebellico di costume (Via col vento è solo uno degli innumerevoli titoli su cui dovrebbe scendere la damnatio memoriae del neobigottismo), vietatissimo tirare in ballo i melodrammoni di Matarazzo e il cinema dei telefoni bianchi…
Via tutto, allora, anche a discapito di una domanda fondamentale rimasta inevasa: perché e come certe cose sono successe come sono successe, e non altrimenti? È possibile disinnescare l’ideologia che le nutriva, spiegandola e contestualizzandola a memoria futura, per poi magari lasciare spazio alla sola ricezione estetica? Ci ricorderemo di ciò che è stato e del perché è stato se distruggiamo le tracce di ciò che è stato? Cosa farne, di questo presente perfettivo eerie: annullarlo o reinterpretarlo?
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