America, the brutalful
Non ho mai creduto all'America iconica e brandizzabile dell'american dream, la terra dove se si vuole tutto si può, dove la felicità è un diritto costituzionale, dove il self-made man bianco, orgoglioso, indipendente, amante della libertà (propria) e della democrazia (altrui) è l'incarnazione flesh and blood di un modo di essere e di vivere appropriatamente definito larger than life. Non ho mai creduto all'ecumenismo da caucus dei cori gospel che si esibiscono per platee di WASP educatamente annoiati, non ho mai creduto alla retorica dei film-manifesto spielberghiani né ai dischi dell'ultimo Bruce Springsteen (qualcuno direbbe di tutto Bruce Springsteen), non ho mai creduto all'ambientalismo di Al Gore né al fiero patriottismo dei cantanti country del Texas, dell'Alabama, del Delaware.
Non ci ho mai creduto, anche se questi e altri stereotipi fanno parte delle istituzioni di semiotica pop cui siamo mediaticamente esposti sin dalla tenerissima età, assieme agli spazi immensi di una natura sempre fatalmente incontaminata, ai neon rilucenti dei fast food e dei night club, alle pubblicità martellanti e gargantuesche su irreali skyline di grattacieli. Non ci ho mai creduto perché, come scrive il Giorgio Vasta che va a zonzo tra le ghost towns dell'America sommersa, l'America è fatta di vuoti e del loro orrore metafisico, di deserti spettrali e apparizioni demoniache: non ci ho mai creduto perché ho visto i freak di Harmony Korine, i dimenticati reietti dei documentari di Roberto Minervini, mi sono soffermato tra i solchi distrutti dalla polvere e dall'alcol dei vinili di Leadbelly (che si chiamava così perché aveva un proiettile in pancia, mai tolto), di Robert Johnson e Blind Willie Johnson (accecato con l'acido dalla matrigna a sette anni, ridotto a vivere per strada dopo l'incendio della propria casa e morto in miseria di malaria e polmonite), ho rovistato tra i materiali d'archivio di Alan Lomax e sfogliato gli studi di John Fahey, ho subito orripilato il male che dalla bomba atomica lynchiana invade il mondo, ho letto i romanzi di John Steinbeck e i racconti brevi di Sherwood Anderson, popolati di ultimi cenciosi derelitti sconfitti dall'esistenza lontanissimi dal mito reificato della Trump Tower eppure in seno convinti di non avercela fatta per un accidente del destino, una negligente disposizione di spirito, non per le storture ontologiche di un sistema costruito appositamente perché non tutti, anzi pochissimi, anzi nessuno ce la faccia veramente. L'America è un paese scoperto tre volte, l'ultima delle quali fatale, perché divenuto culla di una frangia di anglicani così radicali da aver subito persecuzioni persino nella patria del ribellismo economico individualista, vale a dire la radice dei mali di tutto il mondo, e vi sfido pubblicamente ad affermare il contrario.
È questa per me l'America, l'ossessione ottenebrante e nichilista dei padri pellegrini, che filtra inesorabile tra le maglie della storia e contamina la terra, facendovi germinare il seme che sta alla base della fobia statalista, della sacralità del secondo emendamento, dell'odio di classe, razza e genere, della disperata bugia che da secoli ci si tramanda per negare a sé stessi l'infima assurdità della propria esistenza. Ne ha fatto le spese George Floyd, ennesimo agnello sacrificale di un culto oscuro che chiama dio il denaro e al concetto di proprietà sacrifica quanto di bello e di meritevole ci sia in vita. Se la Seconda guerra mondiale finisse oggi, hai voglia che il marinaio circuisca l'infermiera per baciarla a beneficio della fotocamera: potrebbero avere entrambi il Covid.
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