Imitazione di un'imitazione


Il principio tolstojano dello straniamento, com'è noto, si estrinseca in un famoso racconto breve dello scrittore russo, Cholstomer (1886). Cholstomer è un cavallo che parla in prima persona e osserva il mondo che lo circonda così come, in condizioni per noi normali, dovrebbe farlo un agente umano. Rispetto ad un uomo, tuttavia, il cavallo non conosce i concetti di possesso e proprietà: egli interpreta le cose per quello che sono realmente, non in base al dominio più o meno ideale che su di esse dovrebbe esercitare. Si può anzi dire che Cholstomer non comprenda affatto il concetto di "mio", "tuo", "suo" e, più in generale, non comprenda la necessità di riaffermare il rapporto di subordinazione che intercorre tra uomini e cose. È un'osservazione acuta, a suo modo rivoluzionaria, anche se non necessariamente socialista - lo stesso Engels affermava che lo sviluppo storico della proprietà privata fosse avvenuto in concomitanza con il passaggio dalle società tribali a quelle cosiddette "evolute".

Anche noi uomini della contemporaneità abbiamo il nostro straniamento: quello legato alla cosiddetta "proprietà intellettuale", vale a dire il diritto esclusivo che un creatore, un artista, esercita sulla propria creazione artistica (sia essa una canzone, un film, un libro, una foto, un articolo di giornale o un'opera d'arte in senso ampio) e che gli permette, per almeno tre quarti di secolo secondo la normativa vigente, di trarre vantaggi economici immediati dalla sua vendita, dalla sua riproduzione o citazione, oppure, più semplicemente, dalla sua stessa esistenza. La nascita relativamente recente del copyright pone all'osservatore comune, tuttavia, dei problemi filosofici e morali mica da ridere: perché, se è vero che un artista deve comunque essere e sentirsi tutelato economicamente rispetto a possibili utilizzi distorti ("da parte di terzi", come si direbbe) di un processo creativo in cui ha investito tempo, energie fisiche e mentali e fantasia, è anche vero che ogni prodotto artistico, nella sua forma preliminare o conclusiva, altro non è che un assemblamento esteticamente arbitrario di componenti esistenti prima della - e indipendentemente dalla - forma in cui vengono arrangiati nel corso del processo artistico.

Porto un esempio concreto, ispirato dalla cronaca e, più precisamente, dalla tragicomica crociata dei Metallica contro Napster. Avevano ragione i Metallica a portare in tribunale chi, in fondo, se ne fregava delle leggi basilari dello scambio commerciale e piratava le loro creazioni originali senza sborsare un solo centesimo? Probabilmente sì, verrebbe spontaneo rispondere. In un certo senso, tuttavia, la richiesta dei Metallica era semplicemente pretestuosa, perché - oltre che sul prodotto finale, frutto di un processo creativo - le loro richieste implicitavano l'asserimento di un dominio personale su qualcosa che, loro, certamente non era - in questo caso, le singole note, i ritmi e le loro combinazioni. Di più: i più platonici dei nostri ascoltatori manzoniani potrebbero andare oltre e dire che, essendo l'arte imitazione di un'imitazione, ogni possibile prodotto della creazione artistica umana in fondo esiste già, come noumeno, in un mondo di idee a noi inaccessibili sensorialmente, e che quindi, come diretta conseguenza, ogni creazione artistica è un furto di idee ontologicamente depotenziate, degradate.

Stando così le cose, da che lato agisce lo straniamento: dalla parte di chi non riconosce la legittimità del possesso di un'idea o, piuttosto, dalla parte di chi la vuole marchiare con le catene di un'appartenenza forzata? 

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