Il sesto senso (di colpa)
In questi giorni di comprensibile frenesia per il disfarsi della vita così come l'abbiamo sempre conosciuta (un sentimento così pervasivo che, pensate, ha fatto persino tornare in classifica una celeberrima hit degli R.E.M. di trent'anni fa), mi ha particolarmente colpito un commento di un amico, che riguarda da vicino una delle attività forzate preferite dagli italiani in questo momento: lo stare all'uscio e lo scrutare incessantemente al di fuori, nella speranza di cogliere in fallo uno o più incauti trasgressori della quarantena. Il succo dell'argomentazione era che questo proliferare di prima non attestato impegno civile non sia dettato da un effettivo senso di responsabilità verso sé e (soprattutto) verso gli altri, quanto, piuttosto, sia una manifestazione moderna di un antichissimo retaggio religioso (e, più in generale, culturale) che da sempre ci caratterizza come popolo, soprattutto nell'operoso e paganissimo nordest legato ai soldi e alla terra più che a qualsiasi altra cosa.
Mi riferisco a quella che si potrebbe definire "ostentazione di virtù", che nei vangeli canonici prende la forma del ricco fariseo che fa finta di pentirsi percuotendosi il petto ad alta voce e che oggi, mixata al narcisismo compulsivo alimentato dai social media, produce le tonnellate di status e video che stigmatizzano chi non sta abbastanza a casa, chi scende le scale per passeggiare nel giardino del proprio condominio, chi non aderisce pedissequamente a quello che si ritiene essere il più corretto stile di vita, e così via. (Si potrebbe quasi dire che l'esplosione del contagio abbia moltiplicato le energie stigmatizzatrici di coloro che prima sposavano ogni faccia di quel prisma chiamato "corretto vivere civile"). Questo stigma preventivo, lanciato contro il nemico di turno, oltre a servire a chi lo produce in maniera simile all'uropigio per gli uccelli passeriformi, deriva, a mio modo di vedere, da una condizione psicologica ancora precedente, più ancestrale nell'influenza e nelle sue manifestazioni: il mai dimenticato senso di colpa.
In una società in cui la corsa al regno dei cieli si misura in come e quanto un determinato individuo sia stato fedele al senso della propria missione terrena e, nello specifico, ad una serie di comandamenti divini scrupolosamente elencati in ogni sede disponibile, una anche minima deviazione dal percorso ottimale è vista e vissuta con sospetto, apertamente condannata ed emendabile solamente nel caso di un pieno riconoscimento di colpa. Va da sé, naturalmente, che da qui a definire il "pieno riconoscimento di colpa" passa parecchia acqua sotto i ponti: ed è in quella zona grigia in cui si annida il timore di non essere stati abbastanza all'altezza della situazione, di non essere pienamente tornati alla retta via che prende forma e si ingigantisce il complesso di colpa, il sentimento latente di essere sempre e comunque colpevoli di qualcosa che, in superficie, può affiorare anche come cosciente mistificazione di un capro espiatorio sul quale scaricare tutte le proprie presunte inettitudini. È il cattolicesimo dottrinale che incontra arcaici meccanismi pagani di difesa del sé, producendo un capolavoro di psicologia.
Non so cosa stiano facendo al momento i Father Murphy, né come stiano vivendo l'intera situazione, ma sono stati tra i pochi gruppi del nord Italia a canalizzare perfettamente nelle pieghe della loro musica questo senso di colpa atavico ed ontologico, che mangia l'anima ed ottenebra il giudizio. Parlo di loro pensando anche all'amico Francesco Targhetta, che con loro ha condiviso palchi e platee per molti reading musicati e col quale ho condiviso l'ultimo concerto padovano di sempre dei Father Murphy, nel maggio del 2018. A lui l'abbraccio metaforico di noi penultimi, sconfitti sì, ma senza colpa. Verranno tempi migliori.
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