Zeugma n° 6

 


C'è un meccanismo inconscio nel cervello umano per cui ognuno di noi si autoconvince di vivere in un presente sfuggente, teso fra un passato dorato e ricolmo di gioie imperscrutabili (naturalmente, perdute per sempre) e un futuro insidioso, una testa di ponte della ventura apocalisse che porterà in dote la fine del mondo. La verità è più semplice e assai più sconfortante: non è mai esistito il glorioso passato di cui millantiamo e per cui proviamo un'inesplicabile nostalgia, non esisterà un futuro in cui scorreranno i titoli di coda dell'umanità - non, almeno, nei modi e nelle proporzioni che immaginiamo. Dalla nostra prospettiva attuale i problemi dei nostri alter ego quindicenni ci paiono stupidi e insignificanti, ma questo accade, per l'appunto, perché i quindici anni li abbiamo passati da un pezzo. Allora, nel nostro mondo, certe preoccupazioni potevano stritolarti vivo. C'è stata un'Italia adolescente, a quattro trazioni, città-campagna-montagna-isola, uscita a fatica dalle bombe e desiderosa di far vedere le sue nuove forme atlantiste sul crinale fra due opposte e dunque complementari visioni della realtà. Un periodo che, riesumato dalle cronache postume dei grandi vecchi, sembra la terra del latte e del miele di biblica memoria, una frontiera sconfinata verso l'ignoto, dove arricchirsi a dismisura e lasciare il proprio segno imperituro. Eppure, a ben vedere, c'è una squadra di pubblicitari rinchiusi in una villa futuristica che, fra una nuotata e l'altra in una piscina privata, partoriscono slogan da nosocomio; ci sono militari da strapazzo che giocano a bombardare obiettivi di cartapesta; ci sono piazzisti e affaristi che cambiano mansione con la velocità delle legislature monocolori, Fanfani-Scelba-Tambroni-Moro ed è come dire antichità-oro-petrolio-bustarelle. Bella e ridicola l'Italia adolescente, rossa come il sangue della strage di Portella della Ginestra, bianca come la sabbia del caso Montesi, verde come i prati in cui si sono accartocciati i rottami dell'aereo di Enrico Mattei. E c'è poi chi, per indole ribellistica, quasi filosofia di vita, non si beve questo mitologema. Il che ci traghetta verso il futuro. Il terrore della nostra mortalità ci paralizza e ci rende incapaci di accettare che, con noi, non dovrà necessariamente perire anche l'intero mondo che ci circonda - come solennemente asseriscono profezie, catastrofi, castighi divini, la convinzione di essere giunti alla fine dei tempi - tempi che, naturalmente, continuano senza di noi, migliori o peggiori, ma pur sempre continuano. Ci sono dei ragazzi che in riva al mare si abbracciano e si baciano e parlano fra loro, com'era, com'è, come sarà: c'è la teenager precocemente cresciuta, c'è il contestatore precocemente disilluso. È, questo, un tempo spiraliforme, che si ripete sempre uguale, senza ori, senza abissi. Quello che conta è non essere soli.

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