Trenodia nichilista


Non è un mistero che le ultradestre di governo, da Trump a Bolsonaro, si siano assicurate l’elezione potendo contare sul capiente bacino elettorale degli evangelici, gente lesta e sveglia già finita nel mirino di certa documentaristica degli anni passati (penso qui a materiali come Jesus Camp). In Brasile, ad esempio, gli evangelici pensano, a ragione, che il coronavirus sia opera del demonio e passano le proprie giornate ideando nuovi metodi per evadere le tasse e convertire le poche manciate di indios che ancora non sono morti per disastri ecologici o naturali. A ciascuno il suo, come direbbero gli ultras dell’Hellas, e per chi abbraccia un’affettività fluida c’è sempre il rovescio della medaglia di chi si riconosce nelle categorie vetero- e neopentecostali, battiste e presbiteriane. Immaginate quindi l’immenso sconcerto di quella vecchia elettrice di Bolsonaro che, un mese fa, di fronte al palazzo presidenziale di Brasilia, avendo chiesto al presidente una parola di conforto e un ricordo per le pile di morti senza nome che da mesi stanno ricoprendo incessantemente il paese, si è sentita rispondere dal diretto interessato che sì, gli dispiaceva immensamente, ma che in fondo moriremo tutti, la morte è il nostro unico destino comune. Altro che misericordia divina, citazioni bibliche e apparati paracristologici: senza saperlo, il Brasile ha eletto a capo del paese la guida del Partito Popolare Nichilista.

Potrà sembrare paradossale, ma in realtà non lo è per niente: più potere una persona concentra nelle sue sole mani, più diventa cosciente della natura intimamente caduca e mendace delle cose e, come diretta conseguenza, non pone più sostanziali limiti al proprio agire, dal momento che, tanto, prima o poi tutto finirà, quindi tutto vale – anche se possedere tutto, secondo questa linea di pensiero, equivale a possedere niente. È dunque un circolo perfetto di horror vacui quello che ha permesso a Bolsonaro di cementificare la propria narrazione politica e annullare la concorrenza politica degli avversari. Ora si è ascesi al gradino superiore della strategia: Bolsonaro, come Johnson prima di lui appena qualche mese fa, a forza di sfidare il destino è finito ad abbracciare il covid con tutte le sue forze. Magari, come il suo omologo inglese, ce la farà: magari anche no. Difficile capire cosa esattamente augurarsi. Se Bolsonaro morirà, sarà il completamento perfetto della propria linea politica: partire dal nulla per finire nel nulla. Se sopravvivrà, potrà sempre dire di essere un miracolato, la prova provata che questo virus tanti danni poi non fa, guadagnandosi così sul campo la prossima sicura rielezione. Oppure potrà farsi un giretto in Mongolia, mangiarsi una marmotta cruda e gustare il brivido della nuova peste bubbonica.

L’iperrealismo nichilista di Bolsonaro, tuttavia, non è l’eccezione che conferma la regola ma, anzi, la regola passibile di eventuali eccezioni. Potrà essere iniziata anche la fase 342 ma, quantomeno sotto il profilo psicologico, in giro si scorgono solo riflessi complementari della fase 1: quello di chi si autoinganna volontariamente pensando che il virus sia clinicamente deceduto, con questo dedicandosi interamente ad una grottesca imitazione della propria vita pre-lockdown, e quello di chi vive questi giorni con la rassegnazione di chi attraversa una momentanea transizione subodorando il peggio – la medesima rassegnazione dei tre ragazzini belgradesi pestati senza motivo dalla polizia di stato mentre erano seduti su una panchina nell’infuriare delle proteste antigovernative che stanno incendiando i principali centri della Serbia, la rassegnazione degli avventisti che già si preparano alla venuta del nuovo mondo, la frustrata ed allarmata rassegnazione delle minoranze spogliate di ogni diritto e dignità.

In questi giorni di minaccioso niente, ecco l’ennesima polemica inutile tra il cazzaro che apre una sede del suo partito in via delle Botteghe Oscure, rivendicando per sé l’eredità politica di Berlinguer, e la manica di cazzari discendenti genealogici di quel mondo, che hanno rinnegato per sempre già molti anni fa e che tuttavia fanno ancora finta di indignarsi se ci si appropria di quel simbolo culturale non più loro. Penso ad un ragazzo morto in mezzo ad una strada con un foro in faccia in questi stessi roventi giorni di luglio di quasi vent’anni fa e penso che, con tutta la viscerale ingenuità della giovane età, lui nichilista non era, né tantomeno rassegnato: voleva anzi un mondo diverso, più giusto, senza le storture della globalizzazione imperialista che ci hanno portato dove siamo ora, e chissà dove ci trascineranno in futuro, se futuro ci sarà. È stato ammazzato tre volte, quel ragazzo: da un coetaneo calabrese mandato allo sbaraglio che non sapeva nemmeno prendere la mira, da una sinistra di governo che per raccattare due voti in più si è venduta mani e piedi legati ad un liberismo d’accatto, da uno stato incapace di dire la verità su qualsiasi cosa. La rassegnazione che fa da colonna sonora al covid nasce in quei giorni.

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