Quando Zeno sognò la pandemia
Pare sia ufficialmente iniziata la fase 2: la fase in cui tutto cambia pur continuando a rimanere esattamente come prima, il capolavoro politico del partito di Confindustria, il momento in cui gli animali che hanno riguadagnato i propri spazi possono finalmente tornare al ruolo che loro compete, ossia le mascotte dei programmi della Brambilla. Chissà se andrà davvero tutto bene, ma intanto l'imperativo, il desiderio da urlare a pieni polmoni ai quattro angoli della terra, è quello di ritornare alla vita di un tempo, anzi, mi correggo, alla normalità di un tempo: normalità che ora passa ancora attraverso i take away e (forse) i drive in, le epilazioni fai da te e le dirette Facebook, ma, insomma, ci siamo capiti. Chi se ne fotte se la normalità di un tempo, ossia quella di appena tre mesi fa, era quel buco nero che ingoiava tribune politiche di Salvini e incendi australiani, minacce nucleari e catastrofi ecologiche: tutto purché la pandemia, e il terrorismo islamico prima di essa, e i comunisti mangiabambini in cima ad ogni cosa non ci impediscano di vivere la nostra vita, di reclamare le nostre libertà, libertà anzitutto di chiedere una nuova reaction su Facebook e criticare l'influencer di Instagram, di postare le caption dei personaggi famosi e di sognare la partecipazione alle conferenze con tal economista che ci spiega come il capitalismo curerà la tua depressione, ti farà diventare ricco e ti garantirà il regno dei cieli. Ho sentito con queste mie orecchie, che sono forse l'unica cosa rimastami grossomodo funzionante, che le imprese, tutte le imprese, dico, devono riaprire in blocco, perché sennò come facciamo ad assumere nuovi giovani volonterosi?, e il pensiero non può non correre immediatamente a Renatino Curcio e a come un tempo si affrontavano i problemi degli incentivi statali bevuti come sciroppo a novembre e dei tassi di occupazione inspiegabilmente sempre più bassi.
È sempre questo, in fondo, il problema delle pandemie: se uno sopravvive non vede l'ora di tornare a gozzovigliare come e peggio di prima, se non sopravvive non può raccontare a nessuno quanto è stato brutto quel periodo. Ripartiamo dunque, con decisione e con resilienza, se migliori o peggiori di prima lo deciderà un editoriale di Gramellini, e intanto non ho sentito, non dico una parola, ma nemmeno una lettera sul fatto che la nostra vita è una merda, che un'esistenza così non la si augura a nessuno, che non si possono accettare la criminalizzazione della povertà né la dittatura del turbocapitalismo nel 2020, che la globalizzazione, quel mostro a tre teste combattendo il quale giovani ragazzi sono rimasti per sempre sull'asfalto o tra le mura di una caserma nemmeno vent'anni fa, quel mostro avevano ragione a combatterlo, perché ci ha portati dove siamo ora e, chissà, forse la prossima volta ci porterà ancora più lontano. Non una parola sul fatto che sia ora di superare le disgrazie del nostro tempo e muovere in direzione di un socialismo umano ed ecologista.
Io non la voglio, la vita di prima. Voglio una vita in cui il rispetto non si misuri con le etichette e i pronomi allocutivi, dove facilitarsi a vicenda l'esistenza sia l'assoluta priorità di tutti, dove si parli molto meno e si ascolti molto di più, dove l'arte schiacci sotto il proprio calcagno l'economia, dove tutti possano guardarsi negli occhi e riconoscersi per quello che sono. Vorrei una pandemia lovecraftiana, un colore venuto dallo spazio che trasfiguri le cose, annulli il tempo e ci faccia ripartire da capo, solo diversi. Vorrei qualcosa che non succederà mai, e forse è proprio per questo che la vorrei.
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