Sapere di non sapere


Qualche giorno fa Davide Fantin mi ha inviato un messaggio dal cellulare di Daniele Fanton, giusto perché gli piaceva confondere le acque, e mi ha sottoposto una definizione di "penultimo" che per brevità non vi sottopongo, ma che ho trovato perfetta. Tra le primissime caratteristiche in dote a un penultimo c'è, secondo la sintesi del nostro amato penultimo filosofo di Pellestrina, lo sforzarsi con ogni fibra del proprio spirito di comprendere le cose, per poi arrivare la sera ad ammettere a sé stessi di non avercela fatta neanche stavolta, ma fiduciosi nelle possibilità inespresse dell'indomani (che, ovviamente, sarà sempre il solito giorno). Credo, dalla mia prospettiva, di appartenere alla categoria dei penultimi soprattutto per questa peculiarità: il sapere di non sapere niente e l'accettare, cosa non facile, di vivere perennemente in questa perpetua ignoranza che più si cerca di combattere più s'infittisce, si avviluppa.

Quand'ero più giovane, non mi ponevo troppe domande al riguardo, forse perché pensavo intimamente di saperne davvero, una in più degli altri, anche se in pubblico, al solito, si minimizza - è il principio antropologico della salvaguardia della faccia positiva, in fondo. Man mano che crescevo, invece, mi rendevo conto che, per ogni risposta raffazzonata che fossi in grado di dare ad una domanda anche semplice, v'erano almeno dieci, quindici, venti nuovi problemi di cui non avevo minimamente sospettato nemmeno l'esistenza e che, naturalmente, non sarei stato in grado di fronteggiare. La prima volta ci si arrabbia con l'imprevisto, la seconda con sé stessi per aver permesso all'imprevisto di ripetersi, dalla terza volta in avanti può subentrare un tarlo pericolosissimo: quello della disistima di sé e dell'inadeguatezza. Si comincia a pensare, insomma, che il sapere sempre troppo poco rispetto alla vastità impenetrabile dell'universo che ci circonda sia un problema personale, di scarse attitudini intellettuali, di disposizione spirituale tarda, se si vuole. E si guarda con un misto di fastidio e invidia all'altro che, indipendentemente da chi sia e da come sia fatto, è sempre ed inevitabilmente quello più bravo, più dotato, più ambizioso. Se poi l'"altro" crede molto in sé stesso ed ostenta con sicumera ciò che conosce o, perlomeno, presume di conoscere, la frittata è fatta, l'operazione di autodenigrazione giunta a completamento.

Il fatto è che di proiezioni mentali non si può vivere e, spesso, chi più ostenta più ha in realtà da nascondere, quasi sempre per ottemperare alla conservazione di quel moloch distintivo degli appartenenti alla classe disagiata che è il più posizionale di tutti i beni, ossia il riconoscimento di sé (a detrimento degli altri, si capisce). Da una situazione del genere si può uscire solamente in due modi: o con lo scudo, accettando serenamente i propri limiti (che sono, poi, i limiti dell'essere umano come specie biologica), o sopra di esso, rifiutando sino alla pazzia la realtà dei fatti e precipitando lungo una spirale di assoluto e crudelissimo autolesionismo. Non è certo facile accettare il fatto compiuto che con le sole proprie forze si possa arrivare solo fino a un certo punto. Dire "non lo so" può essere cento volte più difficile che dire "ti amo", per un orgoglio di ferro. Eppure, rubando la citazione ad un caro amico di avventure e sventure, usare con frequenza l'espressione "non lo so" migliorerebbe notevolmente la comunicazione tra gli uomini.

Oggi, orgogliosamente penultimo e senza più alcuna pretesa di fingere di sapere ciò che non so, posso dirmi pienamente d'accordo.

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