Aere perennius


No, un diamante non è per sempre. Niente è per sempre, a dire la verità. E chi vi dicesse il contrario, che sia in buona o in cattiva fede, semplicemente mente. Il tempo di far parlare un po' i propri contemporanei e poi è tutto finito, inghiottito nelle sabbie di una memoria che assorbe selettivamente, distorce sistematicamente, infine espelle, inevitabilmente. I cronachisti medievali esorcizzavano così il terrore dell'oblio: registrando quello che era stato (ma chi ci dice che fosse poi stato davvero così?) e al contempo tracciando la via per quello che avrebbe dovuto essere in futuro, in un modello di uroboro circolare che nell'eterna ripetizione di un pattern cercava di ingannare la caducità della vita. Il problema è che questi cronachisti cercavano di esorcizzare il terrore dell'oblio su materiali deperibili che, a loro volta, sono infatti deperiti: ed ecco che vanno in fumo tutte le buone intenzioni, verrebbe da dire.

Persino l'arte, forse l'unica cosa che si possa dire renda davvero grande l'uomo o, perlomeno, lo distragga dalla sua prepotente insignificanza, non è per sempre. Un disco esiste finché esistono le memorie, neuronali ed elettroniche, che ne conservano traccia. Una scultura esiste finché resiste il materiale con cui è stata realizzata. Basta poi un cortocircuito per azzerare l'ontologia di innumerevoli segni di attività umana che, molto semplicemente, è come se non fosse mai esistita. Invano ci consoliamo distribuendo a pioggia aggettivi perniciosi come "indimenticabile" o addirittura "immortale". La verità è che cerchiamo di trattenere nel linguaggio qualsiasi cosa rischi di sfuggirci, e sono molte. Espressioni come "coltivare la memoria", allora, rischiano di essere interpretate come un modo per prolungare l'agonia del caduco, di giocare al rialzo del compromesso nel disperato tentativo di onorare il simulacro di ciò che è stato. Per colmare il vuoto della perdita improvvisa del proprio compagno, la Rooney Mara di A Ghost Story, film di qualche anno fa di una tristezza indicibile, si abbuffa di torta in cucina, ingurgitando e rigettando tra le risate e le lacrime per molti minuti consecutivi. Il suo dolore, o, meglio, la rappresentazione del suo dolore non è personale, ma universale, in un tempo che muta ma non scorre: è il dolore del passato che si fa futuro, già dimenticato da tutti.

Facevo colazione l'altra mattina in una delle poche pasticcerie del centro storico della città dove mi trovo, bevendo un buon espresso addolcito da una balaklava forse un filo troppo immersa nel miele, e nel mentre ascoltavo le Gymnopédie di Satie su YouTube, più precisamente il video che le associa ad alcuni celebri quadri degli impressionisti francesi. In questi quadri sono rappresentate strade straripanti di persone allora magari importanti, ma oggi del tutto anonime: volti ed espressioni catturati in un istante che, per citare l'epigrafe di un film come Begotten, non cessa mai di passare. Pensate ai sentimenti, alle passioni, ai moti d'ira e di orgoglio, che in quel momento sembravano fondamentali e che oggi appaiono invece irrilevanti, persi per sempre, briciole turbinanti sull'orizzonte degli eventi.

Non inganni il riferimento al passato: finiremo dimenticati anche noi. Dimenticherete tutto: chi eravamo, cosa eravamo, cosa abbiamo fatto e non fatto, cosa ci piaceva e non piaceva. Dimenticherete che c'è stata questa rubrica, dimenticherete l'intera trasmissione e persino la radio che la trasmetteva. Dimenticherete infine, e forse lascerete corrompersi, i vacui monumenti che in vita proviamo ad erigere in nostro onore, nell'illusione di un ricordo perenne che già sbiadisce.

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