Parassiti e universali
E così, per la prima volta in assoluto, ha vinto un film non americano. Ha vinto il parassita sudcoreano, la lotta di classe al tempo dei social network e dei bunker antiatomici, i poveri che risalgono dalle fognature e dagli scantinati e contaminano la purezza hi-tech dei ricchi, il loro odore neutro, la loro voglia di fare ancora l'amore. Non è la prima volta che Bong (vabbè, non faccio nemmeno la battuta sul cognome), dicevo, non è la prima volta che Bong parla di scontri classisti e di degenerazione del capitalismo - ammesso e non concesso che ne esista anche una variante non degenerata. Era già successo, a memoria, sul treno in costante movimento di Snowpiercer e con i giganti maiali modificati di Okja (qualcosa che, per chi fosse curioso, fa già capolino in un curioso film del 1968 di Francesco Casaretti, Eat it!, dove recita per la prima volta Paolo Villaggio): ma sia Snowpiercer che Okja, a differenza di Parasite, erano film abbastanza mediocri, almeno secondo il mio modesto punto di vista.
Parasite è stato quasi ovunque celebrato con unanimità bulgara, forse risvegliando in molti scintille protosocialiste da tempo cadute in un insanabile letargo, come chi vi parla ogni volta che si arriva a metà novembre, per capirci. Il problema, semmai, è un altro: in pochi sembrano aver notato che la visione di Bong della lotta di classe è, sostanzialmente, un buco nero in cui precipitano vincitori e vinti, un bagno di sangue in cui tutti odiano tutti, alla faccia della solidarietà di classe: un gioco delle parti dove i poveri Zeus vogliono rovesciare i ricchi Crono non per ottenere una parvenza di giustizia sociale, ma per essere come loro, per prendere il loro posto - e forse, non avendo avuto la fortuna di avere la stessa educazione né essendo abituati alle grandi sfere, comportandosi anche peggio di loro.
Credo fermamente, come spesso ripete Viola Carofalo, che essere poveri non sia per niente una colpa, ma ogni volta che penso razionalmente alle conseguenze di una lotta di classe seria e senza confini mi trovo a pensare, quasi automaticamente, ad un'altra questione: se a cambiare non sono gli orientamenti interni di ogni uomo, la sua disposizione spirituale, si potrebbe dire, che certezze abbiamo sul fatto che la nuova società socialista sia effettivamente più giusta? La città dove mi trovo ha vissuto un'esperienza storica di socialismo lunga quasi cinquant'anni, sicuramente irripetibile, ma che non ha impedito, nel corso degli anni '90, uno dei più grandi disastri umanitari della nostra contemporaneità. Oggi è arrivato un capitalismo disordinato, a macchia di leopardo, che rende possibile la convivenza di posti alla moda, come quello in cui mi sto trovando a sorseggiare una minestra di zucchine, e spaventose sacche di povertà. Eppure l'uomo è rimasto sempre identico: radicalmente malvagio, invidioso del bene altrui. E così in tutto il mondo.
Quando Scola diresse Brutti, sporchi e cattivi, si scatenò un pandemonio: molti dei suoi critici, probabilmente, si guardarono allo specchio e vi videro riflesso il volto di Giacinto Mazzatella, uomo la cui povertà materiale è seconda solo a quella spirituale. Pertanto mi chiedo: è mai possibile, per così dire, parassitare l'universale, invertire la rotta del male atavico che alberga nell'animo umano e ripensare una realtà in cui proprio un tratto di maggiore umanità ne costituisca la base?
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