Tutti sulla stessa barca


Nel momento in cui scrivo, è appena diventata di dominio pubblico la notizia che Boris Johnson, primo ministro conservatore del Regno Unito, si trovi intubato in terapia intensiva per l'aggravarsi della sintomatologia ricollegabile al coronavirus che l'ha colpito qualche giorno fa [UPDATE: Johnson è stato dimesso]. Uno avrebbe vita facile a cianciare di karma, ad inanellare i "se l'è cercata" e i "chi semina vento" come fossero gli orrendi insulti rivolti dalla Murgia a Battiato, anche a gioire, magari non manifestamente, per la situazione di estrema difficoltà in cui uno dei più tenaci avversari politici del momento (dalla prospettiva di noi penultimi, perlomeno) si è infilato con le proprie stesse mani. Io, invece, non riesco a provare nessuna gioia per le conseguenze che una condotta irresponsabile, sia nel privato che nel pubblico, ha provocato sull'individuo singolo e sulla comunità di cittadini che è stato legittimamente chiamato a governare. Non riesco a godere della soddisfazione del contrappasso di fronte ad una così palese ed umiliante vittoria di conscia ignoranza e di spietato calcolo malthusiano. Soprattutto, non mi trovo più nella condizione di esultare per sfortune e disgrazie altrui, sebbene, come in questo caso, abbondantemente propiziate da un reiterarsi di comportamenti arroganti e spregiudicati.

Uno potrebbe dire che il mio è pietismo a perdere, ma non è così: sono convinto che ogni azione abbia una conseguenza ed è giusto che ciascuno sconti le proprie, anche se fatalmente indesiderate, come in questo caso. Quello nei cui confronti mi permetto di rimanere neutro è, piuttosto, la metaforizzazione della momentanea situazione di difficoltà dell'avversario come di una sua "sconfitta", in un non meglio precisato agone dialettico uno contro cento. Non è nemmeno questione di evangelica equità, cioè di non fare all'altro quello che non vorresti fosse fatto a te - precetto che pare invece infuriare su Twitter in queste ore. Penso che il mio punto di vista sulla questione si possa riassumere nella formula che dà il titolo alla rubrica, ossia il "tutti sulla stessa barca": gli errori di uno sono in fondo errori di molti, gli sbagli del singolo flagellano puntualmente la collettività, e sono in fondo le nostre debolezze ad accomunarci e a tenerci vicini sulla stessa barca dell'esistenza - aldilà di appartenenza sociale, politica, religiosa... Questo non significa né implica rinunciare alla lotta politica che, anzi, deve rimanere la priorità in un contesto dialettico: contesto che deve però vedere un campo di interlocutori alla pari, o perlomeno posizionati su livelli adiacenti.

Una volta, doveva trattarsi del novembre 2010, nei giorni più difficili e controversi del suo quarto governo, Berlusconi venne in visita alla prefettura di Padova e venne accolto da una contestazione che definire sonora è usare un eufemismo. Nella folla di quelli che allora avrebbero voluto mettergli le mani addosso c'era anche un me più giovane - che le mani, piuttosto, rischiò di farsele mettere addosso, ma dalla polizia. Ripenso a quell'episodio con un misto di nostalgia per l'ingenuità andata e di consapevolezza che non adotterei più un comportamento del genere: proprio perché il singolo è sempre riflesso della maggioranza, nei pregi e nei difetti.

Una volta che ce ne si rende conto, cambia la domanda alla base del problema: come si può fare perché le decisioni sbagliate di uno provochino il minor danno possibile - fisico, politico, ideologico - a chi le intraprende e a chi le subisce? Magari Johnson, guarito dal virus, si spera, grazie al valentissimo team medico alle cui cure si è affidato, guarirà anche dalla propria imp(r)udenza.

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