Metterci "classe" nella lotta


Mi cade lo sguardo, sovrappensiero, e immediatamente sobbalzo - non voglio, non posso crederci. Riguardo meglio: non me lo sono sognato, è davvero lì. Come un terrapiattista a capo della NASA. Come un rutto in chiesa. Come una vignetta di Marione tra un caffè e una citrosodina. Me ne sto lì, seduto sulla sedia di questo ristorante che gode di buona fama nel posto in cui mi trovo - è, per capirci, lungo il viale che dal parco cittadino porta direttamente alla fortezza dove ogni anno si tiene un rinomato festival internazionale -, un ristorante, dicevo, dove si mangia bene e si spende il giusto, un giorno mi prenderò del tempo per insultare gravemente tutti quelli che ad ogni cosa rispondono "il giusto" - quanto hai speso? il giusto, ti manco? il giusto, quanti mesi di vita mi rimangono? il giusto, ma dicevamo, insomma, bel posto, bel menù e però terribile estetica, un'accozzaglia di arredo da lounge bar e finti scaffali da studio di architettura riempiti di libri, quella roba che piace al professor Ritmo, insomma. Lì, su uno scaffale, mentre aspetto il mio petto di pollo con funghi e mozzarella, la scoperta: tra un ricettario e un vecchio atlante geografico, l'opera omnia di Lenin.

Vladimir Il'ič! E non diciamo niente? Ma hai visto che ti hanno fatto? Sbattuto, decontestualizzato, con vista su bocche perennemente ruminanti e stomaci perennemente digerenti. La rivoluzione non è un pranzo di gala!, diceva quell'altro, senza però dire niente sulla cena. E quindi eccola, la lotta di classe: al ristorante.

C'è della coerenza, va detto, perché dopo aver abbracciato a piene mani la globalizzazione (in spregio alle vite dei milioni troppo deboli per difendere il proprio diritto ad essere, come si direbbe oggi, local) ed avere pontificato sull'assoluta necessità di trasformare il mondo in un unico mercato globale, ora i liberal non vogliono avere niente a che fare con il cibo global e la spazzatura brandizzata e hanno ben pensato di affermare ad alta voce la propria unicità di stronzi ritornando alle fonti da loro stessi inquinate: cibo sano, eccellenze del territorio, DOP, ODG, TSO, H1N1. Tutti privilegi - quelli di mangiare cibo normale, non filtrato, non riempito di ormoni e veleni, non conduttore naturale di cancri - che si pagano, naturalmente, con moneta sonante.

Come si fa a scioperare per il diritto del piatto? Come estendere a tutti, senza distinzione di portafoglio, il sapere culinario? Queste sono le domande che un socialista dovrebbe porsi in merito. Accesso universale al cibo, poco, ma buono. Invece ci piace questionare sul costo al litro dell'olio extravergine del sarcazzo spremuto da vergini di Campobasso il 29 febbraio e imbottigliato in dieci esemplari firmati da Achille Lauro e promossi da Alessandro Borghese.

L'ennesimo capolavoro del capitalismo salutista, che Vladimir Il'ič è costretto, suo malgrado, a vedere dall'alto, relegato in una nicchia storica che, purtroppo, sembra essere senza fondo.

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