Chi ha paura della morte?


So che non è una scelta popolare, ma oggi vorrei lasciare per un attimo da parte le facezie e affrontare un argomento un po' più serio, che mi sta a cuore. È uno di quegli argomenti che, come ogni convitato di pietra, pervade le nostre esistenze quotidiane, infesta ogni nostro gesto e ogni nostro pensiero. Eppure, per qualche motivo, non se ne parla mai volentieri. Sarà che lo abbiamo vissuto da piccoli, sulla pelle di amici, amori e parenti, riflesso negli occhi delle persone a noi più care: sarà che il turbocapitalismo non ammette vuoti e assenze che siano più grandi dei vuoti e delle assenze che ne divorano la struttura. Ma, insomma, l'unica cosa che si deve fare in vita, a ben vedere, è morire: ed è di morte, della nostra morte nello specifico, che oggi vorrei parlare.

Vi chiedo, voi avete paura della morte? Io, vi devo dire la verità, non particolarmente, e non certo perché sia pascaliano, ma perché sono ben cosciente del fatto che della morte si possono, forse, percepire solo le fasi preparatorie, non certo la culminazione finale. Così come non abbiamo alcun ricordo del periodo antecedente alla nostra nascita, così non sapremo cosa succederà quando moriremo. A preoccuparmi - no, non è la parola giusta: ad angosciarmi - è un problema di natura kierkegaardiana: se la vita ci offre solo aut aut, la morte spalanca il baratro dei ne ne. Nulla di ciò che avremmo potuto essere, fare, provare, diventare in vita ci è più disponibile. Penso all'arte, una delle poche vie di fuga disponibili all'uomo per dimenticare temporaneamente, o forse persino riscattare, la miseria della propria esistenza insignificante. In vita si deve scegliere: leggo questo e non quell'altro, ascolto questo disco a dispetto di quell'altro, guardo un film escludendo l'altro. E però ci si tiene comunque socchiuso lo spioncino delle infinite possibilità, di avere tempo (tempo: un altro concetto di diabolica gravità), di avere tempo, dicevo, di tornare sui nostri passi. La morte fagocita quei passi e sbatte fragorosamente l'uscio alle sue spalle. Che sia o meno la fine di tutto, concludiamo la nostra peregrinazione terrestre nella più totale ignoranza: non avremo mai contezza di quanti libri meravigliosi, quanti dischi da pelle d'oca, quanti film imprescindibili, quali opere d'arte totali avremmo dovuto conoscere e, per difetto di finitudine, non conosceremo mai.

[EDIT: Raffaele Alberto Ventura, nel suo recente La guerra di tutti, ne parla come di un peccato di bêtise, citando l'incompiuto romanzo di Flaubert Bouvard e Pécuchet]

È un pensiero così squassante che stasera, nella birreria più famosa del posto dove mi trovo, ho fatto realmente fatica a leggere lungo il menù e a scegliere quello che avrei voluto mangiare, ciò che mi sarebbe piaciuto bere. Ho impiegato venti minuti e ne sono comunque uscito insoddisfatto. Avrò tempo, prima che la morte mi colga, di agguantare per il bavero alcune delle possibili alternative? Immagino che la prossima volta mi toccherà rimanere a digiuno. Ma a digiuno, dicono, si ragiona meglio.

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